L'Italia degli anni '90

La difficile transizione alla Seconda Repubblica

Pubblicato come "L'Italia degli anni '90", in Libertà di educazione, n. 1, pp. 38/42, sett.-ott. 2000.

In questo contributo vogliamo offrire una scheda sintetica ricapitolativa dei problemi essenziali che hanno attraversato la politica e le istituzioni italiane nell’ultimo decennio del secolo. Gli anni ’90 del XX secolo segnano un momento di transizione nella vita politica italiana. Il decennio inizia con la crisi della Prima Repubblica e prosegue nel tentativo di trovare la forma definitiva che dovrà assumere il nuovo assetto istituzionale, forma che a tutt’oggi, dopo dieci anni non ha ancora dei contorni definitivi.

una sommaria cronologia

Vediamo di tratteggiare brevemente la dinamica degli avvenimenti. Vi è una successione logico-cronologica così riassumibile:

1) la fase ascendente delle forze “antisistema” (chiamiamo così le forze più radicalmente avverse alla classe di governo della Prima repubblica):

crollo del muro di Berlino (fine del “pericolo comunista”)

2) fase stazionaria della cosiddetta Seconda Repubblica: i suoi tratti si stabilizzano nel modo seguente: un nuovo bipolarismo, un po’ meno imperfetto di quello precedente (che non consentiva una vera alternanza al governo), ma comunque imperfetto e claudicante (vedi tendenza cronica ai ribaltoni, proliferare di partitini, ancor più che nella Prima Repubblica), una generale volontà di cambiamento e di novità, uno dei cui caratteri è la comunicazione a tinte forti, in cui eccelle il leader leghista Bossi, ma con emuli diffusi, da Berlusconi a Sgarbi, a Di Pietro e altri (la politica si fa cioè urlata: dall’estrema cripticità del politichese doroteo si passa alla sguaiatezza).

Il “nuovo” però non sfonda. Le forze che l’avevano promosso si librano un po’ nell’aria, sembrano prendere quota, ma non riescono a decollare. Ciò vale sia per la Lega, sia per Mani Pulite e gli altri giudici “d’assalto”, sia per il PCI-PDS-DS. Alla fine del decennio si delinea una parabola discendente di tali forze, che pur non tramontando del tutto, devono ridimensionare l’ambiziosità dei loro progetti.


3) fase discendente delle forze antisistema:

focus su alcuni temi-chiave

1. Perché la crisi della Prima Repubblica: la assenza di reale bipolarismo. Vi sono diversi motivi, ma qui ci preme mettere a fuoco solo l’ambito istituzionale, e da questo punto di vista la motivazione è abbastanza chiaramente individuabile nel ristagno al governo di una area politica non passibile di reale alternativa; per quarant’anni il governo della repubblica è nelle mani delle medesime forze politiche, con qualche variazione sì (dal centro al centro-sinistra, dalla solidarietà nazionale al pentapartito), ma senza intaccare un ampio nucleo stabilmente al potere, formato da DC, PRI, PSDI. In altri termini il problema istituzionale centrale della Prima Repubblica è la mancanza di alternativa al potere.

1.a. Le cause di tale assenza. Tale stagnazione è per unanime giudizio ritenuta effetto del sistema di suffragio proporzionale puro. Non è inutile forse ricordare che tale sistema, unitamente ad una architettura istituzionale volta a limitare le prerogative del potere esecutivo per affermare una ampia centralità del Parlamento, fu voluta, alla Costituente, soprattutto dalle forze di sinistra, per arginare il potere della DC e dei suoi alleati. Si trattava di un clima di profonda diffidenza verso le forze filoatlantiche, DC in testa, i cui margini di manovra andavano il più possibile ridotti: il Presidente della repubblica doveva avere un ruolo di pura formalità, il governo doveva essere debole, vulnerabile dalle imboscate parlamentari e dalle faide di partito (e dei partiti), i due stessi rami del Parlamento, cui venivano assegnati esattamente gli stessi compiti (bicameralismo imperfetto), dovevano controllarsi a vicenda (anche per dare più filo da torcere possibile alla maggioranza).

1.b. Mai al governo, ma (per vent’anni) mai all’opposizione. Va poi notato che, soprattutto dagli anni ’70 la stagnazione al potere della medesima area politica coinvolge in qualche modo anche l’opposizione di sinistra, il PCI, che di fatto si trova partecipe di importanti leve del potere. Si parla di consociativismo per indicare tale politica che rendeva sfumati i confini tra maggioranza e opposizione: l’apice fu raggiunto coi governi della “solidarietà nazionale”, a cui il PCI dava prima la sua “non-sfiducia”, poi il suo appoggio diretto (pur senza entrare nel ministero), ma anche negli anni ’80 tale prassi conservò il suo peso. Al PCI infatti andava la presidenza di uno dei due rami del Parlamento, la presidenza di molte commissioni parlamentari e, tra l’altro, una delle tre reti RAI (che a quell’epoca significava poco meno di un terzo dello spazio televisivo totale).

1.c. Pericolosa impunità? In terzo luogo ricordiamo che la certezza della propria permanenza al potere è stata vista come una delle cause di quel fenomeno di diffusa corruzione che contrassegnò soprattutto il decennio conclusivo della Prima Repubblica.

Tali motivi possono essere considerati come il dato diffusamente riconosciuto come limite della Prima Repubblica: e in effetti pressoché unanime è stata e perdura la richiesta di superare tale limite con un sistema politico di tipo bipolare.


2. Esigenze condivise e esigenze di parte. Ma la crisi della Prima Repubblica non è    solo crisi istituzionale, non si volge solo contro un sistema di regole del gioco, unanimemente condannato e unanimemente indicato come superabile in senso bipolare. Si è trattato anche di una lotta politica, di uno schieramento contro un altro. Parliamo in questo senso di obbiettivi particolari. Di fatto la grande abilità dello schieramento vincente all’inizio degli anni ’90 è stato quella di confondere le due cose e di presentare il proprio particolare come (unico legittimo) portatore dell’universale (istanza di bipolarismo e di novità). Tale schieramento, coagulatosi attorno all’ex-PCI e all’ex-sinistra DC (attualmente PPI), si è presentato come il vero portatore del nuovo, di un modo onesto di fare politica. Esemplare di questa tentata confusione tra particolare e universale è il modo con cui tale schieramento ha fatto propria la bandiera del giustizialismo, dove l’istanza di giustizia (di sua natura universale) è stata usata per distruggere l’avversario politico (che è obbiettivo di parte), in base a un teorema riassumibile così: i giudici sono insindacabilmente al di sopra delle parti e a loro spetta la rigenerazione morale della politica, ma i giudici hanno individuato in certe personalità politiche e in certe forze politiche la fonte della corruzione politica, dunque è giusto usare ogni mezzo per impedire a tali forze di prendere il potere. È stato osservato al riguardo che, se è cambiato il contenuto programmatico (non più la giustizia sociale, ma una ostentata pretesa di onestà), resta, nel DNA di certa sinistra, l’idea, leninista, che la legittimazione del voto popolare sia in fondo un particolare insignificante. Infatti si presuppone la necessità di impedire al popolo di scegliere male, ossia: “una maggioranza che votasse per dei corrotti non sarebbe legittima”. Insomma, ciò che conta è fare il bene del popolo, con o contro il volere del popolo. La forma di tale autooccupazione del potere non è più la esplicita violenza rivoluzionaria dei soviet, ma la sottile violenza demagogica di un uso strumentale della giustizia, tuttavia il principio rimane lo stesso[1].

Una prima condizione quindi perché si esca dalla fase di informe transizione, che da troppo tempo ormai si sta trascinando, è che si abbia il coraggio di distinguere tra le esigenze davvero condivise e quelle di parte. Gli obbiettivi da tutti condivisi sono riassumibili attorno alla parola bipolarismo, dunque alternanza al potere, condizione per una maggiore trasparenza nella gestione della cosa pubblica; gli italiani, nel referendum del 18 aprile 2000 hanno ulteriormente specificato che non desiderano che il bipolarismo prende la forma di un bipartitismo all’anglosassone, ma preferiscono la persistenza, sia pure in uno sfoltimento anche drastico, della forma-partito. Il modello che meglio garantisce tale obbiettivo è quello tedesco, come molti hanno finito col riconoscere. Il quale ha anche il vantaggio di garantire quella componente di federalismo che è stata alla base delle battaglie della Lega Nord e che è un’altra istanza non eludibile.


3. Anomalie italiane e desiderio di Europa. La vita politica italiana è passata dall’anomalia di non avere un possibile ricambio al governo a quella, forse maggiore, di avere disintegrato il centro e dato luogo a un periodo di predominio di forze “antistema” e, absit iniuria, poco “europee”, quali ex-missini (ex-fascisti) e ex-comunisti, o comunque anomale, quale Forza Italia, nata attorno a un imprenditore televisivo. Ne è nata una contrapposizione tra un destra-centro e un sinistra-centro, con in più la forte presenza di una forza a lungo “incommensurabile” e indisponibile al compromesso come la Lega. Ora, come evidenziavamo nello schema iniziale, ci sono le premesse per una equilibrante sedimentazione e una reale europeizzazione della vita politica italiana, che veda una contrapposizione, anche aspra, ma civile, tra due schieramenti, avversari ma non (mortalmente) nemici, egemonizzati da componenti responsabili e dialogiche. Insomma non un destra-centro, ma un centro-destra, non un sinistra-centro, ma un centro-sinistra. Perché però si arrivi davvero a questo non sembra possibile evitare una rilettura della storia della Prima Repubblica, che ne riconosca, oltre che i limiti, gli indubbi meriti: non ci si normalizza senza il centro, e non si può legittimare il centro senza decriminalizzare il periodo in cui il centro fu al potere.

note


[1] Si è osservato che finché permarrà una riserva verso la libera espressione elettorale della volontà della maggioranza, sarà legittimo dire che il cammino di conversione alla liberaldemocrazia di certe forze resta ancora (in parte, almeno) da percorrere.